Trionfo di gola
di Pigi Mazzoli
(pubblicato in "Pride", dicembre 2004)

Si chiamava così, trionfo di gola, un dolce siciliano di cui si è persa ormai la ricetta, per la sua complessità di sapori e di decorazioni. Da buon orso, passatemi il paragone tra un cibo, seppur quasi mitico, e una storia d’amore.

Potrei scrivere una pagina intera elencando tutte le cose, grandi medie e piccole, che potrei cambiare nel mio fidanzato e nel nostro rapporto. Alcune le sa già anche lui, ne parliamo, giustamente. Di altre ne ha un vago sentore, creato dalle mie allusioni, modo garbato di dire senza dare importanza, per non ferire con cose poco importanti. Altre sarebbero un fulmine a ciel sereno, cose che neppure ha mai immaginato. Cose che non posso dirgli. Cose che, dette, perderebbero di significato.
Smorzate la vostra curiosità, non confesserò nulla. Per non lasciare allo sbaraglio la vostra immaginazione, che non pensiate chissacché, vi lascio pochi indizi. Se qualche volta arrivasse da me un giorno prima, senza avvisare, magari avendo chiesto mezza giornata di vacanza sul lavoro, pur rischiando ritorsioni in fabbrica, ecco, sarebbe una cosa che avrebbe un significato proprio perché non chiesta, un desiderio non espresso. Significherebbe che ha letto nei miei pensieri, forse nel mio inconscio. I fidanzati ci sono tanto vicini e ci vogliono così tanto bene che possono leggere dentro di noi meglio di quanto non potremmo mai fare noi stessi. Un fidanzato intelligente di fianco è meglio che avere uno psicanalista. Ho potuto fare quest’esempio perchè un giorno è proprio avvenuto, ha abbandonato la macchina da cucire in fabbrica, mi ha caricato in automobile e mi ha portato verso le montagne su cui era caduta la prima neve. Ricordo quel pomeriggio, l’aria sottile e fresca, la luce di questo cielo grigio ma luminoso, il senso di essere in vacanza, della sorpresa, sentirsi soli, in un pomeriggio feriale, dentro una Fiat e con la macchina fotografica al collo. Meglio di una crocera nei Caraibi (sto esagerando, forse, ma queste cose esaltano il mio lato sentimentale e sognatore).
Ma non era solo questo ciò a cui alludevo. Non vorrei che voi, e lui, mi fraintendeste, per cui faccio un preambolo. Se il mio fidanzato fosse proprio perfetto, anzi, ancor di più, perfettamente uguale al mio modello di fidanzato ideale, l’incarnazione esatta del mio principe azzurro, beh, sarebbe un bell’oggettino da mostrare, da tenere in cassaforte ma, ne sono certo, pur amandolo non mi farebbe provare la passione. Forse sì, i primi tempi, potrei pensare che io ho vinto la lotteria del cielo e che un angelo è venuto per portare la pace alla mia esistenza frustata, portandomi la perfezione e facendola vivere accanto a me. E poi?
Invece non lo conosco ancora completamente, e non tutto quello che so di lui parla di perfezione. Ogni giorno scopro un particolare nuovo, bello o brutto che sia, e le mie pulsioni verso di lui cambiano di volta in volta. Voglio dire, e lo avrete scoperto già anche voi, che anche i contrasti, le differenze, i difetti, servono a tenere fresco e frizzante i rapporto, tante frasi banali vengono dette per descrivere queste dinamiche. Chissà cosa succederà domani, chissà se capirà quell’ultima e-mail nella quale dicevo una cosa per fargliene intendere un’altra.
Se non siete al primissimo fidanzamento, se non siete dei sognatori patologici, anche voi vi siete ritrovati in questa situazione, riuscire ad apprezzare la vita nella sua complessità e non alla ricerca della perfezione assoluta.
Il punto a cui volevo arrivare è un poco più in là. Càpita che a volte ci si chieda se vale la pena di continuare o no. Ogni volta che ci siamo soffermati a fare un bilancio del momento, e i bilanci sono necessari, una sorta di tagliando periodico alla nostra vita, abbiamo avuto il dubbio che qualcosa, sotto sotto, ci spingesse alla riflessione perché qualche accadimento ci aveva lasciato il dubbio di una nostra scelta sbagliata. Abbiamo la necessità di sedimentare, in modo ordinato, la nostra vita e i dubbi si incastrano male, restano spigolosi e scomodi. Dunque ci domandiamo se va tutto bene, se abbiamo fatto le scelte giuste, se siamo stati trattati con lo stesso amore come noi abbiamo trattato l’altro, se potrebbe andare meglio. Càpita, è orrendo, a volte, rare volte, si pensa che forse qualcosa non solo non è perfetto, lo sapevamo già, non è quello che cercavamo, si pensa che qualcosa inizia ad andare male. Come un presagio funesto, un senso di smarrimento, incertezza, stanchezza.
Quando mi accade cerco di escludere subito che non si tratti dei primi sintomi di una depressione. Nel caso, solo in questo caso, sono contento di trovare nella depressione, che ci fa vedere come brutte anche le cose belle, che ci fa perdere interesse anche nelle cose che in verità desideriamo, la scintilla che ha innescato il dubbio che tutto non vada come potrebbe. Se invece tutto il resto va bene, o per lo meno va come al solito, ed è stato proprio una parola, un gesto inaspettato dell’altro a innescare il dubbio, e i nostri pensieri si aggrovigliano senza trovare risposte, esclusa la depressione momentanea, allora tiro fuori la speranza. Che è un sentimento irrazionale, una risposta non basata sul ragionamento, salvo quello statistico, che non tutto può andare male. Speranza supportata dall’amore, quasi un credito affettivo, si potrebbe dire se la vita fosse un corso di studi irto di esami.
Sì, quella parola di troppo detta al telefono la sera prima di coricarci, cosa avrà voluto significare? Che peso dare al fraintendimento possibile dato dalla stanchezza di una giornata pesante, alla distrazione riguardo parole dette e su tutti i loro possibili significati, che si ha quando si parla alla persona che si ama, che si conosce, che ci conosce, con cui pensiamo di comunicare senza filtri? Eppure quella parola di troppo ci ha spiazzati dalla nostra abitudine di credrere di sapere già cosa pensa l’altro. A nulla vale il ragionamento. Ha usato la parola inappropriata in quel momento? Ho frainteso io il senso della frase? Voleva dirmi qualcosa che non sono riuscito a leggere nelle pieghe dei nostri discorsi? No, in quel momento abbiamo la quasi certezza che qualcosa di scuro si sta addensando fra di noi. Abbiamo magari paura di parlarne subito con sincerità, per non ingigantire una piccola cosa, o per non creare dal nulla qualcosa, magari neppure esisteva. Un amico, anni or sono, continuava a ripetermi che dovevo rilassarmi. Io, razionale, per quel che mi era possibile, non potevo lasciare sospeso in aria un ragionamento senza annodarne i fili in una conclusione certa. E in questo ragionare andavo per la mia strada perché l’altro, in quel momento, in quel particolare momento, non poteva seguirmi, per stanchezza, perché in quel momento aveva altre proccupazioni, perché proprio stava pensando, desiderando altro, o aveva semplicemente i suoi tempi. “No, ora tu ti fermi e ragioni con me”, se diciamo questo, la nostra storia non sarà diventata fredda come un dibattito elettorale?
Quando usiamo l’espressione “lasciar correre” gli diamo un significato negativo, un sapore di sconfitta, pensiamo ad un meccanismo che si è rotto e che non si può forse più riparare, di cui accettiamo i limiti, una delle tante piccole sconfitte nella ricerca della perfezione. Ma possiamo dargli anche un significato di calma, di riflessione. La capacità di attendere, di concedere all’altro e al rapporto fra due persone il tempo necessario per far evolvere le situazioni, i pensieri. Non siamo noi gli unici che vorrebbero dare un corso, il proprio corso, alle cose. A volte lo dimentichiamo. Bisogna lasciare lo spazio e il tempo anche ai pensieri dell’altro. Senza essere ansiosi. Senza sollecitare risposte anzitempo che risulterebbero prive di valore, o di credibilità, non per volontà a non incontrarsi, ma per mancanza dello spazio necessario a crescere, evolversi e risolversi.
Come posso dire al mio fidanzato che quella parola ha scombussolato la serenità dei miei pensieri per qualche ora, per qualche giorno? Se lo facessi aggiungerei un significato nuovo, più forte, inesistente, alla mia reazione. Non voglio. O meglio sarebbe dire che lo vorrei ma so di non averne i mezzi. So di non avere la capacità di comunicare esattamente quello che vorrei. So che ogni cosa che dico aggiunge un poco di significato alle cose dette in precedenza. E che in questa stratificazione, in questo aggiungere e modificare, sta la meraviglia di capirsi, di costruire, di assomigliarsi sempre di più giorno per giorno. Sto al gioco, necessario, di rispettare anche i tempi dell’altro oltre ai miei, di non forzare le conclusioni solo per calmare la mia ansia di volere tutto chiuso, risolto, compreso.
Che è poi quello che ho sempre desiderato. Quando mi chiedevano quale fosse il mio ideale di fidanzato, quando, alle prime armi, si parlava più che praticava, di amore, io parlavo di sentimenti. Altri parlavano di muscoli, di altezza, di occhi. Io di sentimenti. Il mio principe azzurro non aveva un volto preciso, se non un sorriso rassicurante, non aveva un corpo definito, ma era il sentirmi bene con un lui, anche solo un sentire che con la sua sola esistenza c’era la felicità. L’ho trovato più volte, nella mia vita. Infrango il tabù, un fidanzato non vorrebbe mai sentire di non essere il primo, l’unico. Lo sa benissimo che non è così, e gliene dispiace, ma ci chiede almeno di risparmiarlo dal racconto, dal ricordo. Credo siamo tutti così, io lo sono. Ho imparato però che è sempre diverso, che c’è sempre qualcosa in più che lo fa diventare come fosse la prima volta, l’unica volta.
Il principe azzurro, dicevamo. Il mio era, ed è, quello che mi ama, è sincero e si fida di me. Fiducia. Ecco il punto da cui siamo partiti, senza averne detto la parola. Fidarsi dell’altro, del suo amore nonostante il dubbio che quello parola di troppo, detta, poteva insinuare. Allora non è “lasciar correre” ma “lasciar scorrere”. Scorrere il tempo necessario affinché gli accidenti si spianino senza ostacolare il flusso dell’amore (come vorrei trovare un sinonomo per questa parola per non privarla della sua forza per le troppe volte che viene citata).
Più di una volta ho l’impressione che la mia vita sia come un film. Forse è per questo che vado malvolentieri al cinema, che temo di annoiarmi alla rappresentazione di un’altra vita che non mi appartiene e che non mi interessa, che non mi emoziona abbastanza. La mia vita è un bel film solo per me, solo per noi due, solo per noi due e i nostri amici. Se andasse nelle sale sarebbe forse la storia più banale e soporifera della storia del cinema. Perché quello che ci sta dentro, che non si può vedere da fuori, che non voglio che si veda da fuori, è un vero casino. Ma è la mia vita, la mia vita in due, la nostra vita.
Ne sono certo, fra le vite degli altri ve ne sono di bellissime, ma non mi interessano. Beh, qualche interesse c’è per le vite delle persone che mi sono care, nel senso che spio nelle vite altrui nella speranza di cogliere gioia, per placare la mia paura che il destino sia loro avverso. Ma non desidero nessun altra vita per me. La mia, la nostra, è costata tanta fatica, pur avendo restituito in cambio molto. La nostra vita è il vertice della complicazione e l’abisso della banalità, secondo il punto da cui la si guardiate, se solo vi permettessi di farlo. Ma è mia, nostra. Potendo tornare indietro non cambierei una sola virgola, per paura di modificare qualcosa che mi farebbe trovare ora da qualche altra parte.
Caro Franco (è il mio fidanzato), non aver paura di scrivere e-mail affrettate, anche la frase più infelice che potresti per errore inviarmi, la leggerò come un fregio, un ricciolo in più di quella complicatissima, stupefacente opera barocca che è la nostra vita da quando ci siamo incontrati.