Il segretario galante.
di Pigi Mazzoli
Pubblicato in "Pride", luglio 2002
Non sempre le parole sono dette. A volte sono dette di corsa, quelle scritte hanno invece il tempo necessario per essere quelle più giuste. Non diciamo "non mi capiscono" ma consideriamo che forse non sappiamo spiegarci.
Forse la vostra gioventù vi ha tenuti all'oscuro dell'esistenza di un genere letterario, della famiglia dei manuali o dei bigini, che si chiamava "Il segretario galante". Ovviamente di genere eterosessuale (ma il sospetto è che a scriverli fossero le più femminili menti appartenenti al genere maschile), erano raccolte di lettere-tipo ad uso di innamorati, così la dicitura ricorrente, che non avessero di proprio la cultura o l'estro di scrivere degnamente lettere di carattere amoroso. Tutti le evenienze possibili erano contemplate: la lettera per cortegiare, per accettare le attenzioni iniziali, per declinarle adducendo problemi familiari, per comunicare il proprio ardore all'innamorato lontano e così via, fino alle lettere d'addio.
I modi erano quelli che avrebbero fatto sentire chi vi ricorreva come fossero i protagonisti di un libro di Liala. "Gentile Signorina, ch'ella abbia a perdonarmi l'ardire che mi spinge a scriverle, non sono persona usa a palesare i miei sentimenti, seppur casti e ideali, ma la tempesta ch'ella ha scatenato nel mio cuore nel vederla a passeggio colla sua mamma..." eccetera eccetera, in una gara di modi falsamente nobili e alti.
Ora, e di questo tutti si sono rammaricati, non si usa più scrivere. Il telefono, dagli anni cinquanta quasi in ogni casa, e la teleselezione subito dopo, ebbero ad uccidere l'abitudine di comprare, e usare, carta da lettera e buste. O relegando questo mezzo alle prime pulsioni erotiche adolescenziali, con un florilegio di scrittine buffe sulle buste e colori e disegnini ad accompagnare le prime impacciate proposte al compagno di scuola.
All'arrivo della posta elettronica e dei messaggi brevi sui telefoni cellulari alcuni hanno esultato osservando che seppur non fossero i mezzi ideali per fare letteratura, almeno avrebbero riabituato la gente all'uso di scrivere i propri sentimenti. Non credo che sia stato così, la scomodità e la limitazione dei messaggi brevi, e la loro non agile conservabilità, li relega a dei semplici appunti. E la posta elettronica, con le sue mirabolanti possibilità multimediali, si riempie di disegnini, fondi decorati, animazioni, suoni, foto, caratteri giganteschi per coprire la pochezza del messaggio da comunicare. Perché non basta avere carta e penna per diventare scrittori.
Noi omosessuali, agli esordi delle nostre pulsioni, ci siamo sentiti esclusi da quel carosello di biglietti e messaggi, riservati ai nostri compagni e compagne eterosessuali. Noi, quelli degli amori inconfessabili, spesso ci siamo sfogati diventando poeti per noi stessi e riempiendo foglietti, pagine, diari, cassetti di poesie, il più delle volte tristissime, struggenti, tanto quanto i nostri amori infelici e impossibili.
Poi siamo passati direttamente dalla castità struggente al rimorchiaggio inebriante. La scoperta degli altri omosessuali e della possibilità dell'incontro sessuale ci ha fatto scoprire che la regola era l'assenza delle parole. L'incontro occasionale si svolge in silenzio, senza parlare, mandando messaggi solo di sguardi e gesti. Questo ci ha fatto veramente comodo, ci ha tolto dall'imbarazzo. Nessuno ci aveva insegnato come parlano tra loro gli omosessuali. O meglio, se ci avevano insegnato qualcosa lo hanno fatto attraverso barzellette offensive e quindi era un liguaggio da non usare di certo per presentarsi all'altro. La censura sistematica nelle antologie scolastiche aveva tagliato quanto di bello, poetico, alto gli omosessuali avevano creato e lasciato dietro di sé nella storia. C'è voluto tempo affinché scovassimo in biblioteca o in libreria l'edizione giusta, il libro inaspettatamente erotico che parlava di noi, con le parole giuste per noi. Ma i sonetti di Shakespeare, quando non eterosessualmente modificati, o le poesie di Kavafis erano comunque ancora lontane dalle parole che dovevamo dire alla persona amata. Eppure le abbiamo usate, copiandole in un biglietto quando ci sembrava che dicessero esattamente quello che stavamo sentendo in quel momento.
Dobbiamo prendere coraggio. Impossessarci delle parole e creare il nostro mondo, quello che ci avevano negato. Prendiamo carta e penna e scriviamo al nostro amato. Meno telefonate dai carissimi cellulari e più fogli. Certo, ci si mette tanto tempo, e tante energie, a scrivere una bella lettera. Ma quale altro mezzo ci permette di comunicare ciò che sentiamo in modo ponderato, puntuale, duraturo quanto una lettera scritta con sincerità e con lunga riflessione? E non sottovalutiammo che a volte riflettere serve anche a noi, per capirce meglio noi stessi, non solo per spiegarci meglio, per elaborare i nostri sentimenti, a volte trascinati disordinatamente nel turbinio di una vita intensa ma in fondo piena solo di spostamenti, appuntamenti, sesso e mai di momenti di pausa. Usare un po' meno il corpo e un po' più il cervello.
Capirci e farci capire. Certo, talvolta uscirà il poeta un po' ingenuo che è in noi e sul foglio resterà la frase ad effetto che ora ci sembra tanto bella ma che fra qualche anno rileggendola ci farà vergognare della nostra goffaggine. Sono i rischi del mestiere. Ma quante cose vere profonde, per nulla scontate si riusciranno a dire? Forse abbiamo detto all'altro troppe volte "ti amo" ma mai siamo riusciti a fargli capire come e quanto. Fissare su un foglio i nostri sentimenti è come celebrare un rito, non il diaogo distratto della quotidianità, ma una parte di sé stessi portata all'altro col cuore in mano. E con la mano agli ordini del cervello.
Qualche lettera, a dire il vero, corre già con troppa frequenza: le lettere d'addio. Non quelle di una volta, che cercavano, nella ponderatezza, le parole per comunicare la fine dolorosissima di un sentimento, fornendo anche la distanza fisica necessaria a sopperire alla mancanza di coraggio che dava la timidezza, che rendeva imposssibile un discorso franco, di persona.
Non quelle, ma quelle scritte dopo, dopo la fine del rapporto, da chi ha lasciato, per giustificarsi. Ma soprattutto da chi è stato lasciato, per spargere di veleno gli ultimi bagliori rimasti di un sentimento che ci pare ora insopportabile. Sono lettere orribili. Se ci serve scriviamole, ma poi gettiamole. Agli impulsivi si consiglia, scherzando, di contare fino a dieci prima di parlare. Io vi consiglio, e mi consiglio, di aspettare dieci anni prima di imbucare una lettera di rivalsa verso chi ci ha fatto male. Quel tempo forse basterà a farci capire le ragioni dell'altro, a farci capire che ciò che ci ha fatto tanto male non era ciò che pensvamo ma altro, ben più profondo, nascosto. E anche se così non fosse, se anche dopo dieci anni dovessimo avere ancora la certezza di essere stati maltrattati, abusati, sfruttati, ingannati, dopo dieci anni avremmo almeno la necessaria distanza per perdonare, per aver dimenticato.
Siate ottimisti, se vi fanno del male dimenticatelo. Ricordandolo vi faranno male due volte, dimenticando avrete la serenità necessaria a ritrovare la felicità che vi era stata tolta. E concedete il beneficio del dubbio all'altro. A meno che non pensiate di essere il papa, e quindi infallibili, considerate la possibilità di aver travisato qualcosa, di averci messo qualcosa di vostro nelle cattiverie trascorse, di non essere stati sempre perfettamente chiari. Nei rapporti a volte si recano dolori all'altro, si seminano delusioni, non con l'intenzione di fare del male ma solo per trascuratezza, per la pigrizia di pensare bene a quel che si fa giorno per giorno. A volte ci sentiamo più importanti dell'altro, le nostre cose sono più urgenti dei bisogni altrui. Senza accorgerci, ma non senza colpa, roviniamo noi stessi cose di cui vorremmo che la colpa fosse solo altrui. Non vi incito a straziarvi per tutta la vita nel dubbio dei possibili errori commessi, ma neppure che pensiate di non aver mai sbagliato nulla. Anche non fare il primo passo per favorire una riconciliazione potrebbe essere un'omissione colpevole.
Per cui non aspettiamo il "dopo", scriviamo "durante", così magari non ci sarà neppure un "dopo".
Ora è venuta voglia di scrivere anche a me, che son di solito pigro.
"Caro pisellone, innanzitutto ti vorrei spiegare che quel nomignolo con cui ti chiamo non è affatto volgare, anzi, era per farti capire che su quella cosa, che tu sai che apprezzo tanto, io ci posso scherzare. Perché non è la cosa più importante tra noi. Lo sapevi già? Lo avevi capito? Certo, altrimenti non saremmo qui ogni volta a contare i giorni che ci separano da ogni nuovo incontro. Tu non sai quante volte ho iniziato a scriverti questa lettera, a mente, ma poi per la pigrizia di fermarmi e prendere la penna in mano non l'ho fatto (a volte fissando il soffitto inizio a proiettare volute calligrafiche che vogliono rassomigliare alla leggerezza che sento quando ti penso). E forse, se non l'avevo ancora fatto, è anche per la paura di apparirti un poco buffo, io che vorrei invece essere per te l'uomo perfetto e forte che immagini al tuo fianco..."
Ora continuo da solo, scusate, ma la cosa si sta facendo un po' troppo personale. Tanto ormai credo che la voglia di scrivere la vostra lettera ve l'abbia fatta venire. Una ricarica telefonica in meno e un francobollo in più nella vostra vita, questo il mio augurio.
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