Caro Giovanni, correggi date, cela nomi e fatti se necessario.
Se la prolusione su Stefano è scorretta, o se credi che io debba andare a parare altrove dammi una traccia, passami ciò che è stato scritto e che io dovrei conoscere per elaborare un pensiero diverso.
insomma, dove puoi intervenire tu fallo pure, dove è necessario che sia io a rivedere le mie posizioni cerca di spiegarmi i fatti.
Scrivendo il finale dell'articolo mi sono messo a piangere, e come in tutte le cose che ci coinvolgono, noi diventiamo i peggiori critici di noi stessi, nel senso che perdiamo le capacità per giudicare il nostro operato. Questo per dirti che non mi ci sono neppure messo a considerare se era un finale ad effettaccio di pessimo gusto e se era un guizzo di genialità letteraria ispirato dallo scatenarsi delle forze del subconscio.
Anche il titolo potrebbe essere eccessivo e funereo, insomma, temo che il gusto ne risenti, dove per gusto intendo quel distacco che, soprattutto per esserne coinvolto in prima persona, credo sia necessario per dare un senso, un'autorevolezza, un'utilità al mio scrivere.
Scrivo sempre più di getto. (omissis), che è ora giornalista al Corriere, al quale mi affidai per correggere da eventuali inesattezze la recensione di "sono positivo" (essendo una stroncatura era necessario evitare il ridicolo di uno strafalcione), mi consolava, quando gli raccontai della mia difficoltà nello scrivere, che per tutti è così. Che col tempo sarebbe arrivata anche per me la velocità, quella facilità di esprimere i pensieri in un pezzo strutturato per la lettura. Mi affido alle sue previsioni per sperare che la mia attuale vena compositiva sia frutto di esperienza e non invece una mia trascuratezza incoraggiata dall'abitudine ai tuoi complimenti.
Non voglio essere cerimonioso ma vorrei dare a Cesare quel che è di Cesare, alla tua simpatia per me che ti rende comprensibile ogni mio contorto ragionamento e scusabile ogni mia ingenuità, al sostegno a 360 gradi di (omissis) che mi rode il fianco e non mi permette di riposare sui miei pensieri sfidandomi a rimettere in discussione me stesso e gli altri, all'effetto euforizzante del Sustiva, alle lettere e ai complimenti di amici e sconosciuti che ad ogni inizio mese citano a memoria brani dei miei articoli. Questo per dirti grazie, per la tua parte, per questa esperienza splendida che sto vivendo. O forse sento avvicinarsi il Natale e, si sa, il Natale rende tutti più buoni.
Un abbraccio
(Questa era una mia lettera di accompagnemento all'articolo, al direttore di "Pride" Giovanni Dall'Orto)

Morire due volte
di Pigi Mazzoli
Pubblicato su "Pride", febbraio 2001

In dicembre è morto Stefano di Bologna, detto "la Cesarina". Io lo conoscevo da cinque anni come Thor-it. Conoscenza virtuale su internet. Mi contattò lui per complimentarsi per il fiocco rosso della solidarietà che apposi all'inizio della mia home page. Una home page è una sorta di vetrina virtuale dove parli di te e mostri delle foto, tutti la possono vedere soprattutto se ne metti l'indirizzo in una pagina nota come può essere quella di un gruppo di orsi o la pagina di un server gay. Gli spiegai che era poca cosa per me, sieropositivo, mettere il fiocco e lui argomentò che invece c'era nell'aria una rimozione, da parte di tutti, del virus per non essere coinvolti in cose spiacevoli e che quel mio fiocco rosso era una atto di coraggio e di impegno sociale. Non mi disse di essere a sua volta sieropositivo. O forse me lo disse, ma usando parole vaghe e non lo capii. Poi, in questi anni, sul canale gaySMitalia, abbiamo parlato solo di fistfucking, ne eravamo entrambi appassionati sostenitori, scambiandoci le foto delle nostre imprese erotiche. La notizia della sua scomparsa mi è arrivata solo attraverso il direttore di Pride, che mi chiedeva un breve ricordo di lui. Anche se era un'amicizia solo virtuale fra noi c'era la complicità e l'intesa che si crea fra due persone che esplorano insieme i lati più oscuri del desiderio. Avrei scritto volentieri il ricordo di lui ma ero certo che altri ne avevano più diritto, e avevano più cose da dire.
Invece scopro che ora che qualcosa non è stato detto, anzi, è stato nascosto. La sua sieropositività è stata taciuta. Perché?

Io vengo da una storia personale di epatite B cronica celata. Sono stato infettivo per 10 anni. Alla dismissione dall'ospedale mi dissero che avrei dovuto astenermi da rapporti sessuali, nulla mi dissero dei preservativi e della loro possibilità di proteggere i miei amanti. Mi prospettarono una cirrosi epatica da lì a vent'anni e astinenza nel lungo intervallo. Dico questo per giustificarmi, perché la disperazione in cui mi gettarono mi fece nascondere la mia malattia silente ma infettiva. Dopo qualche anno apparve sulla scena delle malattie veneree l'odiato AIDS ma con esso un'informazione più capillare e completa, soprattutto sull'uso del preservativo. Ed avevo avuto qualche anno per riflettere e prendere coraggio e poter parlare della mia epatite.
Fino al giorno nero in cui seppi di essere sieropositivo. Ma ormai conoscevo il percorso da fare e ruppi il riserbo in pochi anni. Continuo a dirlo: è difficilissimo parlare della propria sieropositività. Il primo passo è di ammetterlo a se stessi, cercando di conservare un filo di equilibrio personale. Non è facile. Il secondo passo è di dirlo agli altri.
L'ho fatto, ho reso pubblica la mia sieropositività. Mi sto ancora chiedendo se per arrivare a questo sono stato mosso dai sensi di colpa della mia epatite celata a vent'anni, oppure da una perversa ricerca di affetto che ti fa confessare le sfortune per essere consolato. A volte penso che sia solo masochismo, quasi un suicidio sociale. Oppure uno snobismo di fondo che utilizzerebbe qualsiasi cosa pur di farmi sentire diverso dagli altri. Ed anche migliore. "Io lo dico dunque sono migliore di loro". Dopo aver scritto tanto e da anni su hiv e sesso sicuro sono ancora all'oscuro di cosa mi abbia spinto a confessare. Soprattutto, a ogni legnata che mi mi viene data mi domando ancora chi me l'abbia fatto fare. Cosa m'abbia spinto a mettermi nella scomoda, antipatica posizione del testimone.
Capisco che nel momento che una persona mi sta facendo una proposta sessuale lui sia vulnerabile, perché le dinamiche dell'approccio sono complesse, coinvolgenti gli strati più profondi della personalità. E che in quel momento sentire che chi hai di fronte è sieropositivo ti coglie in un momento di diminuita lucidità. Ma le risposte che ricevo, da "beh, detto così" a "ma io non volevo fare sesso con te, parlavo solo di coccole" sono sì dettate dal tentativo di non ferirmi ma tanto maldestre ed egoiste da essere meschine. Perché in quella situazione inaspettata nessuno tira fuori la sua inadeguatezza ad affrontare la paura. Vuol dire rifiutare la comunicazione a priori. Tirarsene fuori, scappare per festeggiare lo scampato pericolo.
Capisco pure chi mi viene a chiedere chi fra i miei amici o conoscenti sia sieropositivo. "Ma qui al Company ne conosci? Chi sono? A me puoi dirlo, non lo dico a nessuno". Come se io fossi il loro preservativo virtuale. "Se lo conosci lo eviti" diceva la campagna ministeriale, da me arrivano sperando nella delazione che li liberi dall'incubo. A nulla servono i discorsi sul fatto che nessuno sessualmente attivo possa essere certo della sua situazione sierologica, dell'effetto finestra, della carica virale altissima postinfezione. Vogliono i nomi. Non gli interessa sapere come si usa il preservativo o quando usare i guanti. Nel loro subconscio deve esistere l'infantile convinzione che, una volta marchiati i malati, restino i sani.
Capisco anche chi, per offendere, sulla chat (giuro che mi è successo un mese fa, non ci volevo credere che potesse accadere) mi apostrofa come "malato!". Nel mezzo di una discussione, una persona che si senta senza mezzi adeguati, è lecito risponda "meglio scemo che malato come te". L'ira ha tirato fuori il disprezzo fino ad allora celato. Ed io che ho sempre rifuggito dalla pietà altrui, io che credevo che solo a compassione si dovessero certe dolcezze, certa indulgenza che a me sono riservate come sieropositivo! Spesso allora certi comportamenti imbarazzati sono dovuti al disprezzo che opportunamente deve essere celato. Credevo che l'umanità tutta fosse più buona.
Capisco chi, per la fobia del contagio, e anche le fobie sono malattie, rifugge da me e da tutto ciò che mi è vicino, fidanzato, amici, gruppo, per allontanare da sé ciò che non è in grado di affrontare. Il mio medico dice: "Ma non gli hai chiesto con chi credono di scopare? Ma non capiscono che, diciamo poco, il 30 per cento di quelli con cui sono andati è sieropositivo?". In effetti a volte ho posto la domanda ma mi son sentito rispondere: "A parte te che sei robusto e che non lo avevo capito, di tutti gli altri si vede, e li evito facilmente, perché a me non piacciono magri.". Mi viene il dubbio che, dopo anni di esangui modelli senza un filo di pancetta, l'attuale tendenza a considerare attraente l'uomo robusto sia dovuta a questa inconscia censura che individua nella magrezza il segnale di una possibile sieropositività.
Dopo aver ingoiato così tanti rospi, e con me fidanzato e amici uniti nel banchetto, lasciatemi capire pure chi, sieropositivo, cela il suo stato. Ho sempre sostenuto il contrario. Lasciatemi cambiare idea.
Perché davanti a persone che non vogliono accettare, elaborare la realtà e che fanno della fuga e della censura la difesa del loro raggiunto equilibrio, davanti a questo muro elevato a difesa di un problema che si da per scontato non sia affrontabile, davanti alle sconfitte altrui, mi sembra lecito alzare lo steccato e difendersi. Vuol dire ammettere una sconfitta, vuol dire essere egoisti, ma se già devi affrontare il virus che è dentro di te, chi ti può obbligare moralmente a farti carico dell'egocentrismo altrui? A fare da caprio espiatorio per le altrui fobie?
Capisco gli amici e i familiari dei morti di AIDS quando nascondono. Che aiuto hanno avuto dagli altri mentre gestivano la malattia? Perché dovrebbero essere tanto generosi, ora che ne possono fuggire più in fretta il ricordo del lato spiacevole ? L'AIDS è il fattaccio, non porta bene a nessuno, è da rimuovere in fretta, più in fretta possibile.
Mi chiedo a volte se sono riuscito a conservare il mio equilibrio, se questo mio attuale non sia fittizio, se non sia patologicamente legato a questa mia necessità di rendere pubblico ciò che mi accade. Continuo ad analizzare e a cercare conferme. Metto in un piatto della bilancia la correttezza di cautelare gli altri, di aiutarli a vincere le loro paure irrazionali ma di essere anche monito che il virus c'è e si deve fare sesso sicuro. Metto anche tutto me stesso come esempio per gli altri sieropositivi che si può vivere senza drammi. E che è possibile essere sinceri avendo in cambio l'altrui sincerità e tanto amore. Nell'altro piatto della bilancia la comodità di una vita standard, senza spiegazioni da dare, senza rifiuti strazianti. Senza stress per gli amici che in prima persona si fanno carico della tua felicità e delle offese che ti vengono fatte.
Altre volte ho già detto che è come fare coming out per la propria omosessualità: non c'è un motivo assoluto per farlo, lo si deve sentire. Non ci sono buoni e cattivi. Ognuno ha il suo percorso, le sue scelte, le sue possibilità. Ma se lo facessimo tutti la società cambierebbe di certo. E se noi sieropositivi prendessimo in massa coscienza della necessità di essere visibili all'interno del mondo gay allora cambierebbero molte cose. Nessuno potrebbe dire più di non conoscere sieropositivi, di non avere nessun amico infetto, di essere al sicuro lontano dal "pericolo". Non più imbarazzo per il nostro voler avere una sessualità nonostante il virus, non più ostracismo per i nostri amici, anche quando li lasceremo soli ad affrontare il lutto. Non sarebbero così soli. Non dovrebbero anche rimuovere la malattia che gli ha strappato l'amico, il familiare ma troverebbero sincera, reale partecipazione. Non l'imbarazzante silenzio. Il silenzio è morte. Non fateci morire due volte.